mercoledì 2 marzo 2016

Insulti su fb - ecco le conseguenze

L'art. 595 c.p. incrimina la condotta di chi, comunicando con più persone, offende la reputazione altrui. Nel caso in cui la diffamazione sia posta in essere con il “mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” la pena sarà aumentata ai sensi del comma terzo della citata disposizione.
La Cassazione con la sentenza dell'8 giugno 2015, n. 24431 ha statuito che le offese postate sul social network facebook integrano il reato di diffamazione aggravata, ex art. 595, comma terzo, c.p.

Massima della sentenza: Anche se la parte offesa ha impostato i meccanismi di difesa della privacy, rendendo visibile la bacheca Facebook solo agli “amici”, la condotta di chi posta un contenuto offensivo sulla bacheca altrui integra il reato di diffamazione aggravata di competenza del Tribunale monocratico.

Il Fatto
Il caso riguardava la vicenda accaduta ad un privato che, trovando poco cortese il commento effettuato da un altro utente sul proprio profilo facebook, lo denunciava per diffamazione.
Il Giudice di Pace di Roma si era dichiarato incompetente al decidere sul caso, in quanto ravvisava l'aggravante del reato di diffamazione di cui all'art. 595, comma terzo, c.p., nonostante quest'ultima non fosse stata contestata dalla persona offesa.
Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, non ritenendo configurabile l'aggravante sul rilievo che “postare un commento sulla bacheca facebook della persona offesa non implica pubblicazione né diffusione del relativo contenuto offensivo, possibile soltanto se non attivati, dalla stessa persona offesa, meccanismi di protezione della privacy”, declinava anch'esso la propria competenza a giudicare della fattispecie in favore del Giudice di Pace di Roma e rimetteva pertanto gli atti alla Corte di Cassazione, ex art. 28 c.p.p., per la risoluzione del conflitto.

La decisione della Suprema Corte.
La Corte di Cassazione, dopo aver ritenuto sussistente il conflitto, rinveniva nel caso di specie la competenza a conoscere del fatto dedotto in giudizio in capo al Tribunale di Roma, in composizione monocratica.
Il caso in esame, secondo gli ermellini, configura il reato di diffamazione aggravato, ai sensi del comma terzo dell'art. 595 c.p., in quanto commesso “a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, ipotesi che fa venir meno la competenza in capo al Giudice di Pace.
Tale conclusione si pone in linea di continuità con quanto affermato dai precedenti orientamenti giurisprudenziali.
La Corte, infatti, richiamando alcune sentenze, ricorda come i reati di ingiuria e di diffamazione possono essere commessi anche a mezzo internet (cfr. Cass., Sez. V, sentenza del 17 novembre 2000, n.4741Cass., Sez. V, sentenza del 4 aprile 2008 n. 16262Cass., Sez. V, sentenza del 16 luglio 2010, n. 35511 ; Cass., Sez. V, sentenza del 28 ottobre 2001, n. 44126), e che tale ipotesi integra l'aggravante di cui al terzo comma della norma incriminatrice (cfr. altresì sul punto Cass., Sez. V, sentenza del 16 ottobre 2012 n. 44980).
E' pur vero che la fattispecie dedotta si appalesa sotto più profili diversa da quelle delibate dalla Corte con i citati arresti, giacché diverso l'utilizzo di internet, di cui si è occupato il giudice di legittimità, da quello relativo ad una bacheca facebook, ma v'è tra esse, e non solo perché in entrambi i casi v'è l'applicazione di risorse informatiche, un decisivo fondamento comune.
Ed infatti, il reato tipizzato all'art. 595, comma terzo, c.p., quale ipotesi aggravata del delitto di diffamazione trova il suo fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa. D'altra parte lo strumento principe della fattispecie criminosa in esame è quello della stampa, al quale il legislatore ha giustapposto “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” poiché anche in tal caso, per definizione, si determina una diffusione dell'offesa ed in tale tipologia, quella appunto del mezzo di pubblicità, la Corte vi ha fatto rientrare, ad esempio, un pubblico comizio (Cass., Sez. V, sentenza del 28 maggio 1998, n. 9834) ovvero (Cass., Sez. V, sentenza del 6 aprile 2011, n. 29221) l'utilizzo, al fine di inviare un messaggio, della posta elettronica secondo le modalità “farward” e cioè verso una pluralità di destinatari. Detti arresti risultano infatti argomentati con il rilievo che, sia un comizio che la posta elettronica, vanno considerati mezzi di pubblicità, giacché idonei a provocare un'ampia ed indiscriminata diffusione della notizia tra un numero indeterminato di persone.
Tornando alla fattispecie in esame, osserva il Collegio che “anche la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall'utilizzo per questo di una bacheca Facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l'utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.

Identificata nei termini detti, la condotta di postare un commento offensivo sulla bacheca facebook, la pubblicazione e la diffusione di esso, realizzapertanto, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone comunque apprezzabile per composizione numerica, la condotta descritta dall'art. 595, comma terzo, c.p.
Appare inoltre opportuno sottolineare, ai fini della risoluzione del proposto conflitto, che, come da insegnamento di Cass., Sez. I, sentenza del 26 aprile 2007, n. 18888, il conflitto di competenza, quando vi è incertezza sul titolo del reato o sulla sussistenza di circostanze aggravanti, deve essere risolto con la dichiarazione di competenza del giudice superiore, il quale è in grado di decidere definitivamente sulla esatta qualificazione giuridica del fatto, in base ad ulteriori elementi acquisiti, pronunciandosi sul reato meno grave.
Valentina Plumari





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